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Protàgora di Abdera.

Filosofo greco. Considerato l'iniziatore della Sofistica, insegnò per oltre 40 anni, principalmente ad Atene, suscitando vasti consensi, ma anche aspre critiche. Fra i suoi discepoli vi furono Isocrate, Prodico di Ceo, e Callia. Le tesi professate da P. ebbero un influsso decisivo nello sviluppo della dottrina delle Idee di Platone. Amico di Pericle, di cui probabilmente scrisse l'elogio funebre, fu da lui incaricato di scrivere le leggi per la colonia di Turi (443 a.C. circa). La fortuna di P. andò declinando con il cambiamento della classe dirigente ateniese. La pubblicazione dello scritto Sugli dei diede l'occasione a Pitodoro (uno dei Quattrocento) di accusarlo di ateismo, costringendolo a fuggire da Atene. In questo scritto P. esponeva una concezione di tipo agnostico, secondo la quale circa gli dei non è possibile affermare "né che sono né che non sono": lo impedirebbero, da un lato, l'oscurità dell'argomento e, dall'altro, la brevità della vita umana. Difficoltosa è la ricostruzione del pensiero di P. nella sua reale dimensione storica. Di frammenti autentici, a parte un lungo brano citato da Plutarco, di interesse retorico, rimangono solo le parti iniziali delle opere Sugli dei e La verità; per il resto si hanno solo testimonianze indirette, fra cui la principale è quella di Platone (Teeteto e Protagora), sebbene inficiata da scarsa obiettività nel riportare le tesi protagoree. Alquanto confuse sono le notizie riguardanti il corpus delle sue opere. Numerosi titoli sono stati tramandati sotto il suo nome: Sulle matematiche, Sullo Stato, Sulla virtù, Sulle arti; oltre a questi, alcune fonti ricordano altri titoli (Sull'ente, Ragionamenti demolitori, Gran discorso) che, secondo gran parte della critica moderna, sarebbero da identificare con La Verità. L'opera intitolata Confutazioni o Antilogie, secondo Aristosseno, avrebbe avuto una notevole influenza sulla stesura della Repubblica di Platone, per cui si suppone che avesse un contenuto strettamente politico. Il nucleo fondamentale del pensiero di P. è contenuto nell'esordio de La Verità: "l'uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono, in quanto (ōs) sono, e di quelle che non sono, in quanto (ōs) non sono". Il frammento, nella sua sinteticità, è suscettibile, tuttavia, di diverse interpretazioni: la particella ōs, infatti, può essere tradotta sia con che sia con in quanto. Nel primo caso la frase viene ad assumere un significato di soggettivismo estremo, nel secondo si afferma una posizione più moderata di fenomenismo, che riduce la verità all'ambito dell'opinione e dell'apparenza. Molto discussa è stata anche l'interpretazione da dare a uomo: in senso estensivo, nel significato di umanità, oppure in senso individuale, giungendo a una posizione di relativismo scettico; quest'ultima appare l'interpretazione prevalente della critica moderna. Secondo P. il fattore fondamentale della conoscenza del mondo è l'uomo come essere senziente e pensante, ma essendo l'uomo inteso come singolo, la conseguenza è l'affermazione di un fenomenismo di chiara impronta antieleatica, che riduce l'essere al sembrare, oltre che un netto relativismo gnoseologico: ciascun uomo determina, nel flusso transeunte della propria esperienza, le cose nel loro essere; ciò che appare qui e ora a ciascun individuo si presenta con caratteri di assoluta certezza; analogamente ne consegue che ogni oggetto è suscettibile di due diversi ragionamenti contrapposti. A queste premesse era legato l'ideale retorico di P., incentrato appunto sull'antilogia: a ogni tesi è possibile contrapporre una tesi contraria. L'arte retorica consiste quindi nel trovare argomentazioni per difendere entrambe le tesi, e l'oratore sarà tanto più bravo quanto più riuscirà a persuadere i suoi ascoltatori della tesi più debole. P. non sembra però aver spinto il suo relativismo gnoseologico alle estreme conseguenze in campo etico-politico. Se, infatti, dal punto di vista della riflessione gnoseologica non ha senso parlare di verità e falsità, perché ciascuna cosa è e non è al medesimo tempo, da un punto di vista pratico il concetto di utile viene a reintrodurre una distinzione fra essere e non essere e una scala assiologica su cui basare l'azione. Migliore è l'opinione che porta più vantaggi al singolo come alla comunità; a questa P. dà il nome di virtù e indica come compito proprio del sapiente quello di indirizzare, con le armi della retorica, la comunità politica verso ciò che nelle vicende storiche è più giusto e più utile (Abdera 484-481 a.C. circa - Mar Mediterraneo 411 o 391 a.C.).